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Nidi e covid… non tutto il male vien per nuocere

di Mariolina Boldrin

 

La rivoluzione Covid

Stefano Benzoni neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta della Fondazione IRCCS, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, ha recentemente raccontato che la società italiana di neuropsichiatria infantile ha varato un sottogruppo di studio sui ritirati sociali, gruppo che legge il fenomeno in modo diverso: da aspetto disfunzionale drastico a qualità adattativa del nuovo scenario della società distanziata. Questo fenomeno, provocato dalla pandemia, ci invita a ragionare sulla dialettica salute-sofferenza; quest’ultima, infatti, non si riduce a singoli fattori scatenanti, bensì è un equilibrio tra problemi e punti di forza.

Infatti, il Covid, a partire dai servizi all’infanzia sino alla scuola secondaria di primo grado, ha rappresentato un cambio di cornice di riferimento che ci ha costretto a leggere la dialettica salute-malattia sotto una prospettiva nuova e diversa, vale a dire come una paradossale quanto concreta opportunità per tutti. La distanza ha infatti rappresentato, soprattutto per noi adulti, una grande opportunità per cambiare il nostro sguardo sugli altri e sul nostro lavoro. Vedere la propria immagine riflessa sullo schermo, all’interno delle piattaforme digitali, nel corso degli incontri virtuali, cambia la grammatica dell’interazione sociale e dello scambio conversazionale. Abbiamo così finalmente scoperto quanto sia faticoso ascoltare solo le parole e non avere un’interazione fisica con l’altro e ciò ci ha sensibilizzato sull’importanza del rapporto con il corpo.

Ciò che la pandemia ha messo a nudo è il fatto che ci siamo trovati all’interno di uno scenario, quello dell’isolamento sociale, verso il quale stavamo andando volontariamente, grazie all’utilizzo scriteriato, ininterrotto del digitale come passatempo sostitutivo della conversazione de visu, della relazione con l’altro da sé, della lettura di un buon libro, della visione di un bel film.

La verità, maggiormente preoccupante emersa, è che la saturazione tecnologica sta stravolgendo il rapporto dei bambini e degli adolescenti con la costruzione dell’identità e che gli scenari distopici di alcune serie televisive non sono poi così lontani nel tempo. Il nuovo diktat potrebbe dunque rivelarsi: “Riprendiamoci il corpo”.

Corpo e educazione

Chiediamoci allora se la didattica, ante pandemia, fosse veramente in grado di valorizzare la presenza del corpo in classe. Chiediamoci quanto il bambino, l’adolescente abbiano necessità di essere considerati anche corpo. La risposta appare ovvia, ma possiamo spingerci a cercarne le prove.

Qual è la cartina di tornasole che conferma l’importanza del corpo nella formazione del bambino, del preadolescente, dell’adolescente?

La cartina di tornasole sono loro, i più piccoli, sono i bambini del nido, sono i bambini tra 2 e 3 anni, sono le creature che ci hanno permesso di toccare con mano l’importanza della presenza del corpo in educazione, l’importanza di saper gestire il corpo come elemento che concorre alla conoscenza e all’apprendimento. Permettendoci altresì di comprendere come l’interazione reale con l’altro da sé sia vitale, dando l’ennesima prova di quanto sosteneva Heidegger: sein heißt mit sein: essere è essere con. Un assunto a partire dal quale, potremo disporci a prenderci insieme cura del mondo.

Al di là dell’afflato filosofico sopra esposto, concretamente, a cosa mi sto riferendo?

Un aneddoto mi aiuterà nella spiegazione.

Come molti ricorderanno, a luglio (del 2020), dopo mesi di chiusura dei servizi all’infanzia e delle scuole, è stato possibile organizzare i centri estivi. Come pedagogista, mi sono preoccupata del ritorno dei piccoli all’interno di una comunità, un rientro che accadeva dopo tanti mesi a stretto, continuo contatto con i genitori. Ho allora provato a ipotizzare, con i gruppi di lavoro dei nidi, una sorta di re-ambientamento graduale che permettesse ai bambini e alle loro famiglie, di riprendere la quotidianità del nido, senza risentire troppo del lungo periodo di interruzione. Davo come assodato che i bambini, oramai consueti a un rapporto familiare da lockdown, dunque immersi totalmente nella relazione con i genitori e con l’ambiente-casa, avrebbero avuto enormi difficoltà a riprendere il rapporto con il gruppo dei pari, chiusosi bruscamente a febbraio, ma anche con gli spazi e con la ricorsività tipica di un servizio all’infanzia.

Mi sbagliavo.

Trascorso il primo giorno di rientro dei bambini, dopo avere effettuato un giro di telefonate con gli educatori, ho capito che non avevo capito nulla. Quasi tutti i bambini si sono letteralmente lanciati (uso volutamente questo termine scarsamente tecnico) nella quotidianità del nido, nel rapporto con il gruppo dei pari, nella relazione con l’educatore. Si sono “fiondati” (chiedo perdono, ancora una volta per il lessico) sui giochi, sul materiale ludico, godendo dei piccoli laboratori outdoor pensati per loro dagli educatori e vivendo con grande entusiasmo ogni singolo momento della vita di comunità. Ne avevano un bisogno disperato, erano esasperati da questa prigionia casalinga, appena alleggerita dai video che gli educatori avevano inviato alle famiglie per mantenere un contatto con i bambini, video densi di affetto, di memoria narrativa, di nostalgia e di amore per l’infanzia, ma pur sempre realtà virtuali. I bambini avevano invece accumulato una necessità estrema di toccare e di toccarsi, di sfiorare ed essere sfiorati.

Sì, certo sapevo, dalla psicologia dell’età evolutiva, che il bambino ancorché piccolo, è naturalmente predisposto a creare legami con più caregiver, ma ero certa che un lungo periodo di relazione esclusiva con le figure genitoriali, avrebbe rappresentato un ostacolo non indifferente nel rientro al nido; non avevo capito quanto la comunità del nido consentisse loro di essere mente e corpo insieme.

Nel frattempo, con l’inizio del nuovo anno educativo, a settembre siamo entrati in modo definitivo nel piccolo delirio delle bolle.

Il nido e le bolle

Durante la ripresa dell’anno educativo, dopo anni di lavoro sullo spazio come III educatore, sullo spazio come educazione al bello, sullo spazio come veicolo di apprendimento, ci siamo ritrovati a dover trasformare gli ambienti, tanto curati, in un piccolo accampamento, dando priorità massima alle bolle, dunque alla sicurezza di bambini e educatori. La vita negli interni si è rivelata inizialmente un po’ complicata, mantenere le bolle e l’educatore di riferimento della bolla ha richiesto impegno e spese aggiuntive, poiché necessariamente abbiamo dovuto potenziare l’organico oltre a stravolgere gli ambienti. Da qui l’ennesima apprensione, eravamo infatti assai preoccupati per l’inevitabile assenza di contesti di intersezione per età eterogenea, nei quali funzionava meravigliosamente la zona di sviluppo prossimale, quella distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale, che, secondo Vygotskij, può essere raggiunto con l'aiuto di altre persone, che siano adulti o dei pari con un livello di competenza maggiore.

In realtà gli ambientamenti che si sono succeduti, hanno risolto il problema, poiché il mantenimento delle bolle ha fatto sì che inserissimo via via i bambini, laddove la bolla lo consentiva ovvero ove vi era un posto libero, a prescindere dall’età del bimbo da inserire, finendo con il creare piccoli gruppi, ma eterogenei per età e potendo quindi lavorare anche sulla zona di sviluppo prossimo.

L’outdoor

Non solo, eravamo anche avvantaggiati dal lungo lavoro, svolto negli ultimi cinque anni, sull’outdoor education, un itinerario formativo che ci aveva posto nelle condizioni di trasformare gli spazi esterni in aule a cielo aperto. Abbiamo allora lavorato all’esterno, all’interno e a metà, fruendo di quella pedagogia sulla soglia che consente ai bambini di portare fuori ciò che è dentro e dentro ciò che è fuori, permettendogli così di uscire e di rientrare più volte, annullando la differenza tra giardino e sezione.

Da qui una riflessione.

È stato così per tutti? La scuola dell’infanzia, la scuola primaria, la scuola secondaria di primo grado, (DAD a parte) hanno trovato le risorse per sfruttare lo spazio esterno? Gli insegnanti sono stati adeguatamente formati in tal senso? È stata abbandonata l’idea vetusta di giardino come luogo di sfogo dei bollenti spiriti durante la ricreazione?  La scuola è stata in grado di utilizzare l’esterno come aula priva di pareti?

Chiudiamo questa lunga riflessione, lasciando irrisolti i quesiti sopra espressi e cogliamo la palla al balzo per chiedere al MIUR di ripensare a un’organizzazione dell’apprendimento che consenta agli insegnati di saper implementare una didattica degli spazi aperti, per aiutare i bambini e i ragazzi a mantenere un contatto con il fuori vissuto, non come antitesi allo schermo, perché non possiamo escludere la contemporaneità, ma come complemento. Non è un’utopia: esistono i tavoli digitali che possono essere portati all’esterno, esistono i microscopi digitali, le videocamere eccetera. Vi è insomma una strumentazione che, in mano a docenti adeguatamente formati, può realizzare quella fusione tra indoor e outdoor divenuta ora più che mai, fortemente indispensabile.

Capofila del progetto

ACEG - Istituto Sacro Cuore
C.so M. Fanti, 89
41012 Carpi (Modena)
Tel: 059.688124
Mail: sacrocuorecarpi@tiscali.it
CF 81000250365

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